L’esperienza di Maria do Sameiro Freitas, operatrice AFN in Vietnam dal 2001
«Appena arrivata a Ho Chi Minh City, ho imparato la lingua e studiato la cultura. Volevo rendermi utile e sapevo che certamente avrei incontrato tante situazioni di disagio. Vedendo questa gente industriosa, creativa, volitiva, mi sono chiesta: cosa posso dare a queste persone? Arrivavo da una cultura individualista e consumista. Lì al contrario la famiglia è tutto, l’individuo scompare di fronte alla comunità e rischiare tutto per un amico è cosa di tutti i giorni.
Nei primi giorni incontravo per strada una signora con il figlio malato mentale che viveva in una cabina telefonica. Vendeva banane, con chissà quale ricavato. Ogni volta che passavo mi salutava e sorrideva, un sorriso contagioso che faceva dimenticare caldo e stanchezza. La città era frenetica, eppure, in mezzo alla moltitudine, c’era sempre qualcuno che ti salutava e ti riportava al rapporto personale. Mancavano piuttosto le cose materiali: infrastrutture, cibo, accesso all’educazione, servizi sanitari. Grazie al SAD c’era la possibilità di alleviare tante situazioni, curare malati, fare studiare ragazzi e offrire a tanti la possibilità di un riscatto, di un futuro».
Così racconta Maria do Sameiro Freitas, portoghese e referente AFN per il Sostegno a distanza e le Adozioni internazionali, in Vietnam dal 2001.
Puoi raccontarci del tuo lavoro?
«Insieme ad un’altra collaboratrice, seguiamo i ragazzi del SAD, sparsi in tutto il Paese. Andiamo a trovarli per capire le loro necessità, in viaggi nei quali si sa quando si parte, ma non dove e quando si arriva! Pian piano sono nati dei micro progetti: per esempio in uno dei villaggi, vicino alla costa, abbiamo operato in collaborazione con le autorità locali per far arrivare acqua potabile nelle case, perché quella dei pozzi era salata. Nelle famiglie dei ragazzi del SAD ci sono persone malate che necessitano di un intervento, o persone a cui trovare un lavoro. Con i contributi del progetto si cerca una risposta a quante più situazioni possibile».
Nel 2004, con la riapertura delle adozioni, è iniziata una nuova fase…
«Nel 2004 abbiamo ottenuto l’autorizzazione a lavorare in Vietnam anche nel campo delle adozioni internazionali. Questo ci ha aperto al problema dei bambini negli istituti. Abbiamo iniziato a visitare gli orfanotrofi, centinaia solo a Ho Chi Minh City, molti tenuti da persone poverissime, che potevano assicurare ai bambini non più di un tetto e una minestra!
Abbiamo prima di tutto cercato di migliorare le condizioni di vita dei minori negli istituti, soprattutto quelli che non sarebbero stati adottati. Oltre alle prime necessità, come cibo e vestiario, abbiamo realizzato interventi strutturali: un pozzo, una cisterna di acqua potabile, un impianto di depurazione dell’acqua. Abbiamo anche messo a disposizione borse di studio e sostenuto laboratori professionali di cucito o informatica.
Pian piano abbiamo compreso i motivi che portavano all’abbandono dei minori: ragazze madri, figli fuori matrimonio, situazioni disperate di povertà. Questo ci ha portato ad un dialogo con le autorità in vista della creazione di un sistema di protezione sociale capillare che permetta di prevenire tante situazioni. Insieme alla Comunità di S. Egidio abbiamo presentato un progetto per favorire la presenza di assistenti sociali nelle situazioni di abbandono familiare , proposta ripresa nella stesura della nuova legge in materia di adozioni entrata in vigore in Vietnam nel 2010».
Cosa ti porti di questi anni in Vietnam?
«Una forte esperienza di rapporti, scambio di culture, reciprocità. Ho visto situazioni di estrema povertà aprirsi alla possibilità di un futuro migliore; dalla morte certa alla speranza per un intervento riuscito; da uno stato di abbandono all’affetto e al calore di una famiglia. Sono cose che ti marcano per sempre perché vedi cosa fa l’amore. Basta cosi poco! D’altra parte, la grinta, la forza, la dignità di questo popolo, che ha sofferto così tanto nella sua storia, mi conferma che ogni cultura è un’opportunità per creare un mondo più fraterno».
Paola Iacovone