Mathare, un insediamento malsano e sovraffollato con una popolazione di oltre 500mila persone. La seconda baraccopoli più vasta del Kenya, alla periferia di Nairobi. Qui opera da 25 anni il Progetto Magnificat con l’obiettivo di arginare il fenomeno dei bambini di strada.
Gli street children dormono sotto i cavalcavia, ai bordi delle strade. Sopravvivono grazie a un po’ elemosina, furti, o lavoretti come la raccolta dei rifiuti, continuamente a rischio di violenza e sfruttamento. Spesso è la condizione di estrema povertà delle famiglie a spingere i bambini a scappare di casa o a esserne allontanati per mancanza di cibo.
Nel programma di sostegno a distanza di AFN sono attualmente inseriti 197 bambini di Mathare. Ricevono un pasto caldo e la merenda tutti i giorni; si propongono loro delle attività socio-educative e si aiutano quelli dai 7 ai 17 anni nel pagamento delle rette scolastiche, delle divise e del materiale didattico, per consentire loro di frequentare le scuole private o del governo.
Il programma prevede anche l’assistenza medica di base e varie attività per accompagnare bambini e famiglie in un percorso di autosviluppo favorendo rapporti di unità tra le tribù locali, come dice una mamma “qui nel progetto SAD ho imparato ad accettare l’altro e a condividere”. Dal 2009 il progetto si rivolge anche ai bambini del villaggio Seme, nella città di Kisumu, occupandosi in particolar modo della scolarizzazione.
Lucia Cardoso, referente locale di AFN, ci aggiorna sulla situazione attuale e della ripresa delle attività scolastiche a Mathare a partire dall’11 gennaio 2021 secondo le indicazioni del Ministero della Salute. I bambini sono felici, potendosi finalmente ritrovare di nuovo nella cappella Sant’Anna della Parrocchia di Kariobangi, un locale in lamiera con il pavimento in cemento, ma che per loro rappresenta un sogno divenuto realtà.
Con la pandemia Covid-19, le attività si erano interrotte nel rispetto dei protocolli emessi dal Ministero della Salute per evitare la proliferazione del virus. “Abbiamo distribuito prodotti alimentari e mascherine cucite dalle mamme sarte del progetto. La situazioni attuale – spiega Lucia – non è facile: i bambini e adolescenti non avevano i mezzi tecnici per continuare gli studi a casa né le condizioni economiche per avere internet; le famiglie che si mantenevano con delle piccole attività di sartoria o vendita di abiti, hanno perso il lavoro, perché ora la gente acquista solo beni di prima necessità come il cibo. Le famiglie non avendo un’ entrata non possono sostenere i loro figli, e così aumenta notevolmente la povertà. Però la pandemia ha evidenziato anche come sia importante la solidarietà e la fraternità. La sofferenza ci ha spinti a cercare nuove modalità per rapportarci con tutti. La distanza sociale non ce lo ha impedito!”
In questa situazione estremamente difficile, c’è chi ha speranza e va oltre le difficoltà, come Patricia, una delle mammea del progetto: “Vendevo riso e fagioli nelle scuole, ma quando con la pandemia sono state chiuse, ho perso il lavoro. Allora mi è venuta l’idea di cucinare samosa (un tipo di pastella) e venderla per avere qualche soldo e poter comprare cibo per i miei figli. Ho incoraggiato le altre mamme del progetto a seguire il mio esempio vendendo anche loro quello che potevano. Non dobbiamo scoraggiarci.”
L’ amministratrice del progetto a Seme, Lucy Mark, è infermiera e ci racconta una delle tante esperienze che si trova a vivere ogni giorno: “In mezzo a tanti pazienti, c’era una giovane donna con un bambino nato da cinque giorni. L’ ho preso in braccio ed era molto leggero e debole. Ho visto che anche la madre era debole. Lei piangendo mi ha detto che da quando aveva partorito non aveva mangiato, prendeva solo foglie di the bollito. Non aveva il latte per il bambino e poteva dargli solo acqua con zucchero. Con un’altra persona del progetto, abbiamo cercato vestiti e cibo e siamo andate a portarle quello che abbiamo recuperato. L’abbiamo trovata in un ambiente molto povero, al limite della sopravvivenza umana. Stiamo continuando ad aiutarli; ora abitano dalla famiglia del marito, in attesa di avere una casa più dignitosa.”
Giovanna Pieroni