Il lavoro delle psicologhe che accompagnano i ragazzi di “Fare sistema” nel loro percorso di inclusione sociale.
Vivere in un centro di accoglienza non è facile. Si ha un tempo di permanenza prestabilito, che di solito è di 6 mesi, durante i quali bisogna acquisire le competenze necessarie per sostenersi da soli. Spesso questo tempo non è sufficiente per ragazzi che, arrivando da Paesi molto diversi dal nostro, non riescono ad orientarsi, a mettere a frutto le loro esperienze pregresse e si perdono nei baratri della burocrazia e dell’emarginazione sociale.
Accompagnare i ragazzi stranieri nel loro percorso di integrazione e nel delicato passaggio dal centro di accoglienza alla vita autonoma, sono gli obiettivi del programma “Fare sistema oltre l’accoglienza”, che opera dal gennaio 2016 in varie Regioni d’Italia. Una rete nazionale di aziende, famiglie, enti locali, associazioni e attori sociali cooperano per il raggiungimento di questi obiettivi, ognuno a seconda della propria specificità.
A seguire i ragazzi in questo cammino oltre ai tutor c’è anche un’equipe di psicologi ed esperti dell’accoglienza, che ha il ruolo sia di orientarli dal punto di vista lavorativo, in base alla competenze acquisite o alle loro attitudini personali, sia di motivarli e renderli più consapevoli delle difficoltà della vita al di fuori dal centro di accoglienza.
Angela Mammana e Rachele Pizzi lavorano nel programma in qualità di psicologhe e hanno conosciuto da vicino molti dei ragazzi inseriti in “Fare sistema”.
«Dividiamo il percorso in tre fasi – racconta Angela, Psicologa e Coach Umanista ‒ nella prima iniziamo a conoscere l’utente, accoglierlo e creare un clima di collaborazione, poi si cerca di fare un’analisi dei suoi bisogni a partire da quelli primari fino ad arrivare agli obiettivi professionali, a quelli abitativi. Una fase in cui mi soffermo è quella del bilancio di competenze in cui cerchiamo di estrapolare dal vissuto della persona le sue principali competenze e potenzialità. Infine c’è l’ultima parte, dove si cerca di impostare un progetto futuro e si redige un Piano individuale di Autonomia».
Spesso la condivisione dei vissuti ha dato vita a un rapporto umano che va ben oltre la valutazione professionale. Un rapporto che lascia il posto a uno scambio di emozioni, tra pari. «Ho lavorato molto con donne – ci riferisce Rachele, impegnata da anni nell’ambito delle migrazioni ‒ anche vittime di tratta o che avevano subito violenze domestiche. All’inizio è facile scontrarsi con un muro, ma una volta superato, esce fuori la bellezza delle loro paure, fragilità e anche un senso di rivalsa. Spesso nei colloqui viene fuori tutto il carico emotivo e di sofferenza, per cui l’impatto è forte. Ma questo ci ha portato a legarci molto di più».
I ragazzi che fanno parte di “Fare sistema” vengono supportati nella ricerca attiva del lavoro, grazie alla rete di aziende che rientrano nel programma; vengono anche accompagnati nella ricerca abitativa, in vista della loro uscita dai centri di accoglienza e nella creazione di una rete di punti di riferimento fatta di famiglie e persone.
«Quello delle famiglie all’interno del progetto è un punto fondamentale. – Ci spiega Angela ‒. Loro vivono all’interno di uno Sprar e sono abituati a regole continue, quindi una situazione più informale e familiare può di sicuro aiutarli a sentirsi a loro agio e ad aprirsi di più. Chi non apprezzerebbe una carezza o un invito a cena spontaneo?».
Ed è proprio questo il ruolo delle famiglie, anche una semplice condivisione del proprio tempo libero o un sostegno nella conoscenza dei servizi presenti sul territorio, può significare tanto per chi è costretto ad abbandonare la propria terra d’origine e approda in un Paese totalmente sconosciuto.
Nell’arco di un anno il percorso avviato dall’équipe di cui Angela e Rachele fanno parte ha portato a ottimi risultati e significativi cambiamenti nella vita dei ragazzi. C’è chi è riuscito a sostenere un colloquio di lavoro, grazie ai consigli ricevuti durante gli incontri e chi è riuscito a lasciarsi alle spalle, anche solo parzialmente, il proprio vissuto di sofferenza concentrando le energie per riscattarsi.
«Noi iniziamo gli incontri con la domanda: quali sono le tue aspirazioni? – conclude Rachele – e poi ci concentriamo sugli step da percorrere, cercando di essere concreti, ma senza eliminare la loro creatività. Ci siamo confrontati con attori professionisti, con cantanti, con imprenditori e persone con dei back-ground importantissimi. Non è come pensa la gente. Sono persone flessibili che hanno viaggiato, poliglotte e con un grosso bagaglio di esperienze. Manca solo chi possa dar loro la mano e accompagnarli per inserirli nel territorio che li ospita e che li faccia sentire parte di qualcosa, al centro».
di Lorenzo Fiorillo