L’asilo Biseri (Le Perle) a Skopje in Macedonia è nato per offrire un contributo all’integrazione etnica, linguistica e religiosa. Alla base del Progetto educativo promosso e sostenuto da Azione per famiglie Nuove, c’è la cosiddetta “Pedagogia di comunione.” Intervista a Michele De Beni*.
Quali sono le aspettative delle famiglie in questa zona del sud-est europeo?
C’è nell’aria – lo avvertiamo ogni volta che incontriamo studenti e famiglie – una diffusa attesa di cambiamento, radicale dalle sue fondamenta. E questo prima di tutto a livello interpersonale, tra gruppi di vicinato, tra famiglie. Non si può più tollerare la violenza, l’ingiustizia, gli intrighi, l’accanimento degli uni contro gli altri. C’è tanta nostalgia di una vita spesa bene!
In mezzo a tante divisioni, lotte tra persone, tra gruppi, tra religioni, qui riaffiora l’interrogativo di sempre: “Perché tutto questo?” Una domanda di senso, che mi sembra scuota non solo la coscienza e dia forza ad azioni concrete. Ci è sembrato importante coinvolgere direttamente le famiglie, e quelle più giovani in particolare, consapevoli che è da una nuova cultura della famiglia, dalla qualità delle sue relazioni interne-esterne che può iniziare un autentico rinnovamento anche della stessa società civile: un futuro migliore, di pace e di progresso, anche per questa terra di Macedonia.
Quale concetto di educazione cercate di sperimentare a Skopje?
Quello che stiamo sperimentando in Macedonia, con l’asilo “Perle”, l’ Università di Skopjie e altre università europee è la progressiva continuazione di quello che possiamo considerare un Progetto-pilota di ricerca-azione sulla “Pedagogia di Comunione” (www.eduforunity.org), iniziato sei anni fa in Croazia in collaborazione con l’asilo “Raggio di sole” e con l’Università di Zagabria.
A Skopje il problema emergente è la formazione di una cultura del rispetto e del dialogo tra etnie diverse, principalmente tra quella macedone e quella albanese. L’obiettivo nell’arco di un biennio (in cui si articoleranno i sei moduli formativi) è di accendere i riflettori sull’intercultura come modello di sviluppo e percorso educativo della comunità. Per questo, oltre a incontri teorici con gli accademici, una parte considerevole di questo progetto è rivolta alla formazione degli insegnanti delle scuole dell’infanzia e dei genitori.
Chiara Lubich è stata maestra. Cosa ha rappresentato per lei questa esperienza?
Chiara vedeva la famiglia come modello di riferimento per l’educazione. Per educare infatti non basta una buona teoria, ma occorre “garantire una presenza” autorevole, competente e premurosa tra i ragazzi. Di ciò Chiara è stata certamente una straordinaria testimone del nostro tempo, già negli anni in cui insegnava (1938-1943), quando lei era semplicemente “la maestra Silvia”.
Lei, infatti, che ha insegnato per tre anni in un orfanatrofio, ha toccato con mano in quel luogo e con quei ragazzi cosa significasse far sperimentare prima di tutto il calore di una famiglia. Per lei era naturale parlare e insegnare “a modello di famiglia”: il suo modo di educare, cioè, era colloquiale e costruttivo, come dovrebbe esser improntato quello tra genitori-figli; la sua era una didattica attiva, che sapeva coinvolgere i ragazzi; paziente, perché sapeva aspettare tutti, ma anche esigente perché spronava a partire dal cambiamento di se stessi. Accompagnava, correggeva, sollecitava, ma sapeva guardare tutta la persona, ogni ragazzo nella sua unità: fisica, affettiva, cognitiva, sociale, morale e spirituale.■
di Giovanna Pieroni
* Michele De Beni è psicoterapeuta e docente di Educazione degli adulti al SISF di Venezia. Coordinatore del Progetto biennale di formazione tra Cattedre universitarie e interassociativo “Comunità che educa. Una sfida interculturale” presso l’Università statale di Skopjie (Macedonia).